La porta dell’Associazione L’arte musicale è sempre aperta: tutto ciò che si è spinti a fare mettendo piede nella sede dalle volte a stella e leggermente sopraelevata sul livello del pavimento, è sedersi ad ascoltare. Dentro o si sta svolgendo una lezione o c’è il maestro di musica Mario Faggiano sempre disposto al dialogo e ciò che segue è il frutto della conversazione che ho tenuto con lui.
Come si fa a insegnare musica?
Devi tenere testa, pazienza, con i bambini, con i grandi. Gli anziani si dimenticano, la memoria comincia a vacillare. Un amico mi chiede come faccia. Sono allenato, lo faccio da una vita.
Quando hai capito di voler insegnare?
Da bambino. Avevo 6 anni. La passione ti porta a farne un mestiere. Se lo fai bene, ovviamente. Mio padre mi disse: “Impara a suonare il clarinetto, vai a scuola che danno anche lo strumento musicale”. A questa scuola elementare c’era un professore che veniva da Lecce, il professore Magliani, suonava una tromba schiacciata, quella che usano nel corpo dei bersaglieri, molto pratica, ed io andavo ogni martedì e giovedì pomeriggio, tutti i bandisti di una volta stavano lì.
Quando si presentò il momento di comprare lo strumento, il professore Magliani ci informò che, a malincuore, il Comune ritirava gli strumenti dati in comodato d’uso. Il professore disse: “Ragazzi, voi andate avanti! Non lasciate! Siete bravissimi. Lo strumento serve”. All’epoca non c’erano gli strumenti che ci sono ora. O acquistavi “Buffet”, una marca francese di clarinetto che costava oltre 350.000 lire, o niente. Mio padre faceva la guardia campestre, aveva la passione del mandolino ma non viveva di musica. Mi disse: “E da dove dobbiamo andare a prendere tutti quei soldi? Continua a suonare la chitarra, tanto sei bravo lo stesso”.
È stato invano frequentare il corso di clarinetto senza poterlo portare al termine?
Mi servì comunque per conoscere il solfeggio, la musica scritta.
E poi hai continuato a suonare la chitarra?
Di fronte alla scuola media Bilotta c’era l’associazione “Achille Grandi” che dava la possibilità di suonare nei suoi locali interni. Ogni giovedì e domenica pomeriggio ci riunivamo. C’erano una quarantina di persone che ballavano ed io, ragazzo, suonavo la chitarra. C’era il fisarmonicista di Martina Franca, Pascarazza di Francavilla che suonava il mandolino. Era un modo per evadere. Anche se non mi piaceva la musica folkloristica mi mettevo ad un angolo e suonavo.
Oggi il tuo nome è associato a vari progetti, qual è la differenza tra il Circolo Mandolinistico e Lu ualanieddu?
Il Circolo Mandolinistico è una formazione. Esisteva a Francavilla negli anni Sessanta ed è quello che ho rilanciato io, il Circolo Mandolinistico “In punta di… plettro”. Nel gruppo folkloristico “Lu ualanieddu”, io stesso vi suonavo da piccolo, e riguarda principalmente i bambini che imparano e si esibiscono in canti tradizionali.
Cosa intendi con musica folkloristica?
Prima c’era la musica di barberia. Si faceva tanti anni fa ed era musica tranquilla. Si trattava di mazurka, polka, walzer. Quando additano “musica folkloristica” c’è da soffermarsi. Il folklore è nato dopo. Perché hanno iniziato ad indossare i costumi, il foulard rosso, la gonna lunga. Ecco il “folklore”. I giochi con i nastri, il ballo del bastone. Questo bastone che aveva un intreccio e se lo sbagliavano, a tempo di mazurka, si diceva che la sposa portava scarogna. Tutte queste credenze c’erano una volta. Poi hanno inserito tutto il resto, lo vediamo con “La notte della Taranta” dove hanno messo addirittura l’orchestra, le chitarre elettriche, i pianoforti. C’è di tutto.
Ma ne “La notte della Taranta” la regina indiscussa è la pizzica.
La musica di barberia era completamente diversa. Niente a che vedere con la pizzica. Il repertorio della musica di barberia comprendeva appunto musiche lente come il walzer, la mazurka, la polka. Nella barberia c’è stata la “taranta”, che è un po’ diversa. Si suonavano il violino e il tamburello. Quando le persone non stavano bene si diceva: “è stata morsa dalla taranta”, e quelle erano tutte delusioni. Allora si facevano “sfogare”, e violino e tamburello suonavano dalla sera alla mattina quasi ininterrottamente. Le persone se ne andavano di testa.
Che ne pensi della pizzica?
La pizzica pizzica sono due accordi. Chi ama questo genere lo segue. Eppure non è una passeggiata stare nelle ronde, è un ritmo che si ripete quasi all’infinito. Io amo la pizzica-pizzica ma fatta in un certo modo: suono pulito, si devono capire le note, il tempo, la pulizia dei tamburelli.
Tu sei per una convivenza di più generi?
Sì, esatto. Mi applico su tutti i generi musicali. Se qualcuno viene e mi dice: “Voglio preparare questa canzone”, anche se a me non piace, mi applico, perché è l’insegnamento che ti porta a fare questo.
Ti è dispiaciuto non continuare gli studi?
Io ho tutta l’esperienza però non sono andato al conservatorio. Con il tempo mi sono aperto a chi è più bravo di me. Te la devi fare con le persone più brave di te se vuoi andare avanti. Adesso sono le persone a venire qui ad imparare perché vogliono esplorare tecniche nuove, diverse. Le tecniche come nascono? Le tecniche si perfezionano, si personalizzano. Dopo il conservatorio bisognerebbe fare un tirocinio come dopo un percorso universitario qualsiasi caratterizzato da molta teoria, però c’è da fare anche pratica. Una volta che si esce dal conservatorio bisogna fare esperienza.
Se all’epoca non hai potuto acquistare il clarinetto come ti procurasti la chitarra?
C’era un liutaio a Francavilla, sulla via per Brindisi, nominato Cascione, una famiglia di suonatori, i suonatori di una volta che suonavano ad orecchio. Ed uno di loro era falegname che costruiva anche le chitarre. Francavilla negli anni ’60 era piena di mandolinisti.
Parlaci un po’ del mandolino.
Per il mandolino c’è la tecnica nostra, che è completamente diversa, e c’è la tecnica napoletana. Ci sono tante cose da scoprire sugli strumenti. Anche sulle chitarre: il pizzicato, o suonare con il plettro, suonare senza unghia, tante tecniche che cambiano il suono. Ne ho tanti di mandolini: portoghese, irlandese, napoletano. Conservo ancora quello di mio padre. Ci sono i mandolini con la paletta, alla romana, alla napoletana. Il mandolino ha 8 corde, corde di violino, stessa intonazione, Mi/La/Re/Sol, solo che il violino ha le corde “sfoderate”, acute, mentre quelle del mandolino sono “foderate”, creano un’intonazione grave.
Guardandoci intorno nella sede balzano agli occhi gli strumenti e i tanti fogli appesi, foto.
«Vado sempre in cerca di strumenti antichi. Sono attraenti. Quando vedo qualcosa di bello che può richiamare l’attenzione dei ragazzi che prendono lezioni, la stampo e l’appendo. Ci sono anche gli attestati che ci lasciano certe volte al termine di una serata. Poi c’è “La festa dell’emigrante”, organizzata con Anna Ferreri, quando siamo stati a Milano a portare “La canzone di Francavilla”.
Esiste una “canzone” di Francavilla?
La cantavo in radio quando ero piccolo. Una canzone che è nata così, giocando, nella chiesetta di Via Roma, Sant’Angelo, nell’oratorio. Di un gruppo di ragazzi ciascuno cantava la sua strofa. Poi queste strofe sono state messe insieme. Quando suonavo al gruppo folkloristico venne Gino Quazone, cercava un ragazzo con la chitarra che cantasse la canzone di Francavilla. La registrò un amico mio, Silvio Galasso. Questo ragazzo se ne andò a Verona e quando tornò Gino dicendo che la registrazione non era venuta bene, mi disse: “Falla tu!”. E così la feci io. La mettevano come sigla di apertura e di chiusura di “Radio Francavilla”, in via Simeana, nel programma che si chiamava Parla comu t’è fattu mammeta, un programma tutto in dialetto. Quando tornavo da scuola accendevo la radio e ascoltavo la sigla.
Cosa ami di più del tuo lavoro?
I bambini sembra che si innamorino di quello che dico, di quello che porto, di quello che faccio fare loro. I bambini ti abbracciano. Certe volte dico: “Vedi la musica dove arriva”. Sicuramente vedono il musicista come un artista. C’è una bambina che la prima cosa che fa quando arriva con tutta la chitarra in spalle è abbracciarmi.