L’occasione dell’incontro con Francesca Filomena è offerta dalle fasi finali di “Leggimi, ancora!”, progetto di lettura condivisa per la scuola primaria, curato da Le Radici e le Ali Arciragazzi, inserite nella programmazione de “Il maggio dei libri 2023”
Francesca Filomena è nella Sala Conferenze della Biblioteca Comunale “Giovanni Calò”, accerchiata da bambini e bambine a cui ha riservato la visione del suo primissimo albo illustrato di quando faceva anche lei le elementari ed era solo una bambina. Sulla copertina c’è scritto “La mia prima fiaba” e dentro si susseguono intatti quei disegni realizzati allora.
Francesca, quando hai realizzato di essere un’illustratrice?
È arrivato il contrario. Ho iniziato a farlo e poi ho capito quando potevo veramente esserlo.
Come hai iniziato?
Quando dovevo scrivere la tesi di Laurea. Ero iscritta ad un corso di studi di grafica editoriale che in parole spicciole è come si struttura un libro, da zero fino al progetto finale.
Come mai hai scelto l’Accademia?
Finito il Liceo ho detto “Ora scelgo io”. Non volevo fare né lo scientifico né il classico ma quelle furono le uniche due opzioni che mi furono date.
Optasti per quale liceo?
Mi feci due calcoli: “Mi fa più paura il greco o la matematica? Greco. Ok, prendiamo lo scientifico”, mi dissi, pensando che avrei fatto arte, invece no. A livello di pratica c’è poca roba.
Quindi avevi chiuso con l’arte?
Avevo fatto tanti progetti extra scolastici legati all’arte che non erano necessariamente illustrazioni. Potevano essere di qualunque tipo di arte. Basta che lo facessi. Sapevano quanto io amassi l’arte. Durante la maturità in tutte le scuole superiori avevano indetto un concorso nazionale di fumetto e la mia docente di Lettere mi disse: “Vuoi partecipare tu?”, e così partecipai e lo vinsi.
È stata questa vittoria ad indurti ad iscriverti all’Accademia?
Mi ero già iscritta all’Accademia di Belle Arti. Diciamo che vincere il concorso nazionale di fumetto non ha significato l’inizio della carriera artistica ma sicuramente è stato importante per i miei genitori che a quel punto hanno capito: “Ah cavolo, allora ce la può fare veramente!”
Come te lo spieghi quest’atteggiamento?
Avevano paura del settore. Se ne parla poco oggi, figuriamoci all’epoca. Stiamo parlando di più di 10 anni fa. L’idea dell’artista era legata a quella che purtroppo si fanno 2, 3 lavori insieme e “quello” lo si fa per hobby. Io volevo farlo diventare una professione. E ho preso l’Accademia perché mi incuriosiva l’idea della professione.
Tu prima hai citato la tesi di Laurea come snodo cruciale per la tua vicenda di vita e di lavoro. Cos’è successo?
Alla tesi di Laurea ho portato il libro illustrato. Mi capitò forse l’occhio su un libro di infanzia che avevo letto da piccola e decisi di prepararne uno perché dovevamo portare sia il progetto della tesi sia un prodotto effettivo di quello che studiavamo. Fatto un po’ per gioco, ho scoperto che mi piaceva un casino. Ho pensato: “Cavolo, è bellissimo questo mondo”. Allora sono andata a studiare.
Sei ritornata nuovamente a studiare?
Sì perché non avevo fatto studi di illustrazione e volevo un minimo di conoscenza della teoria base. Ho fatto un paio di corsi estivi alla Scuola Internazionale di Illustrazione di Sarmede.
Sembra che ad ogni cambio di corso di studi corrisponda un paesaggio nuovo.
Sarmede è nel Veneto, un paesino sperduto, sembra uscito da una fiaba perché è su questa collinetta nel verde, ci sono pochissimi abitanti e questa Scuola Internazionale conosciuta in tutto il mondo con alcuni dei maggiori esponenti d’illustrazione che lavorano come insegnanti, quindi tu hai il contatto diretto con il professionista e mi ricorderò sempre di questa docente che poi è diventata la mia mentore che mi disse: “La tua chiave è la dolcezza, preservala”, e mi lasciò spiazzata perché in realtà l’unica cosa che vedevo in me era tutto tranne che la dolcezza.
E l’hai preservata?
Nel libro illustrato ho trovato la mia dimensione. Perché poi ci vuole tanta empatia. Non è come il quadro. Nel quadro tu devi esprimere te stesso. Nel libro illustrato tu devi esprimere le emozioni di qualcun altro. L’emozione di quel testo, di quella storia, e la devi far arrivare ai bambini.
Dalla teoria stiamo dunque passando alla pratica.
Non volevo continuare a studiare illustrazione, volevo lavorare. Ho fatto studi mirati sugli argomenti che mi servivano e ho portato avanti un esercizio mio personale continuativo nel tempo. A Sarmede ho avuto la conferma che è questo quello che voglio fare. Da lì è iniziata una lunga gavetta, una gavetta che è durata forse 4, 5 anni, una lunga sfilza di rifiuti prima di riuscire a guadagnare di questo mestiere.
Qual è la sfida più grande per te?
Ogni volta è la parte iniziale. Ti devi mettere seduta sulla sedia e ti devi forzare appunto a pensare al messaggio che devi portare avanti. Non tanto la realizzazione delle tavole quanto proprio l’immedesimazione nell’emozioni e nella chiave di lettura che poi mi porta avanti tutto il resto. Nei miei libri, per esempio, c’è sempre un dettaglio che io porto avanti dall’inizio alla fine. Nella canzone di De André, “La guerra di Piero”, il papavero rosso non è il protagonista ma è Piero, questo soldato che va in guerra, racconta della guerra e si trova in un campo di papaveri rossi, così io, invece di raccontare come personaggio principale il soldato, ho preso il papavero rosso che trascina il soldato in questo campo di papaveri rossi, lo cerca di avvisare del pericolo ma lui lo ignora, e l’ho usato perché è un silent book.
Quindi adesso riesci a guadagnare di questo mestiere?
Ancora oggi quando mi dicono: “Come va?”, ho paura a dire “Va bene”, un po’ per scaramanzie forse. Lavoro con le storie degli scrittori. Lavoro con gli inglesi o con gli americani. Solo all’estero. Sono quasi sempre clienti privati quindi dipende da loro sulle tempistiche. Non è una casa editrice. È un mercato difficile da raggiungere. C’è anche questo come obiettivo.
Raggiungere il mercato italiano delle case editrici?
Quello italiano è molto difficile. Diciamo il mercato delle case editrici.
Cosa cambia tra un privato ed una casa editrice?
A livello economico non mi cambia nulla. Cambia la produzione del libro. Lasciandolo in mano ad un privato, non sempre va in porto, quindi il libro a volte non prende proprio vita e rimangono le tavole.
È un po’ quello che succede in Italia anche.
Sì, la differenza è che nel mercato italiano io non ho trovato neanche un mercato tra gli autori italiani. Purtroppo in Italia c’è questa sbagliata concezione che non dobbiamo essere pagati tanto né dobbiamo essere pagati. Sono stata contattata da autori italiani ma tutti quanti si sono bloccati al preventivo. Danno per scontato che prendo poco o non prendo proprio.
Ti dispiace non lavorare con scrittori italiani?
Quello che mi crea più problemi è lottare per far accettare il mio settore. Quella è la cosa che più mi fa rabbia. Far capire alle persone che è un lavoro, che io ci lavoro. Non è un hobby. Se vieni da me e mi dici: “Ho bisogno di questo servizio”, io do per scontato che il servizio si paghi, qualunque esso sia, che sia il falegname, l’elettricista, l’idraulico. Qualunque cosa. Invece nel mio settore c’è questa barriera costruita nel tempo e che ormai fortunatamente si sta abbattendo ma che ha ancora molta resistenza.