L’ultimo poema teatrale del professor d’Amone in 3 tempi e 9 scene, nel giorno della Madonna della Croce

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Sottosopra è il Podcast di Paesituoi.News: i fatti, i retroscena, il sopra e il sotto dalla città di Francavilla Fontana: questa è la seconda puntata del 27 gennaio 2023.

Sono trascorsi alcuni mesi dalla pubblicazione dell’ultima opera del professore Cosimo d’Amone. Lontano dalla vita pubblica ormai da qualche tempo, d’Amone ci accoglie con grande gentilezza nel suo studio: “A lla strata ti lu Sarvatòri cu mestu Ntoniu, lu sartòri” è il titolo del suo ultimo poema teatrale in vernacolo, in 3 tempi e 9 scene. «Non 3 atti», chiarisce il professore, «perché l’atto, l’azione, si compie. Il tempo dura. In ogni tempo 3 scene. Ma ogni scena è un teatro a sé».

Qualcuno potrà pensare, e di certo ha pensato, che il dialetto è un sapere retrogrado. D’Amone non ha dubbi a riguardo: «Il dialetto è latino, è greco, è spagnolo, quindi l’origine della nostra storia. Io lottavo a scuola con alcune colleghe che vietavano ai ragazzi di dire qualche parola in dialetto. Devono imparare l’italiano, ma non devono dimenticare la nostra storia».

Ma perché una vicenda personale come quella raccontata nel testo può interessare uno o più lettori a tal punto da creare una coscienza collettiva? Qui il professore non fornisce una risposta altrettanto netta. Perché la verità è che ogni volta che qualcuno scrive una storia, la sta salvando dall’oblio. E, se è scritta, allora quella storia è vera. Prendere tra le mani questo libro di considerevole stazza, aprirlo, significa già farla affiorare.

L’ultima opera del professore Cosimo d’amone

L’augurio è che questa storia affiori là dove non ci sono libri, nelle case dove non si legge, per le strade dove nessuno passa e, come per magia, compaia sotto l’uscio della porta, seduto, il maestro di sartoria, Antonio Saracino, con ago e filo in mano per gli ultimi rammendi. E lì di fronte, l’uscio della porta della bottega del calzolaio Nicola Balestra. I due protagonisti, veri e propri attori di strada per la gente che passava di là.

«Quando avevo 7 anni, mia madre e mio padre mi misero in bottega, a lavorare, ad imparare un mestiere, che era quello del sarto, dal maestro Antonio Saracino. Dalla fine di maggio, non si poteva lavorare in quelle piccole e strette botteghe. Si usciva fuori, sulla strada principale della città, via San Salvatore, che collegava piazza Dante, la piazza del Sedile, con via San Giovanni, largo San Marco e il Castello degli Imperiali. La gente passava, si fermava. Io stavo in bottega lì».

Gli bastava stare lì. Ma chi l’avrebbe mai detto che gli sarebbe valso il ricordo di una vita.

«Quegli anni alla bottega, la vera maestra di vita, mi sono rimasti sempre impressi nell’animo e nella mente. Il mio maestro, quando c’era qualche fatto, o qualche persona appena andata via, cantava la canzone che si adattava a quell’avvenimento. Naturalmente, chi passava, si fermava ad assistere».

Un linguaggio incantatorio, quello del canto, per accompagnare la messinscena della vita, coi suoi protagonisti, gente che passava di lì, o clienti fissi, o altri maestri, maestre, al lavoro, per far defluire il sangue caldo delle emozioni.

Il canto di un sarto assume tonalità chiaroscure sulla tavolozza di un tempo storico con le sue caratteristiche, con le sue difficoltà, con le sue abitudini.

Il tempo di Angelo ed Emilia, che abitavano al piano di sotto rispetto al professore, in via Palomba, intenti a cercare il loro unico figlio “Angilu”. Nel ’42 andò in guerra e non tornò più. E alla madre e al padre non dicevano la verità. E questi impazzivano.

«La notte, quando era il mese di agosto, si usava allora svegliarsi con la volontà di parlare al cielo, invocando la Santa Monica. Santa Monica era la madre di Sant’Agostino che non trovava il figlio. E la notte, col cielo pulito, ai quattro angoli di due strade, la gente si metteva là, con delle preghiere particolari, interpretando le voci, i rumori, i canti degli uccelli o il passaggio di animali, si potevano avere risposte».

Angelo e Maria non ebbero alcuna notizia fino al ’48. «E il maestro Antonio, che sapeva cosa voleva dire la guerra, dice “quelli, mezzi morti, chissà cosa aspettavano dai Carabinieri”».

I tempi e le scene descritti sono raccordati tra loro da una voce narrante in italiano che racconta della processione della Madonna della Croce, dell’invocazione alla Santa Monica, degli altari del mese di maggio, di quello che sua madre riuscì a far collocare presso i Tabacchi Orientali, del fuochista Algemiro, detto “Argiminu”, de “li chìauti”, le bare della cui costruzione era specializzato il falegname Pompeo Chionna.

Una sorta di collezione di ricordi ma soprattutto «l’omaggio alla memoria che fa rivivere un pezzo di storia francavillese».

«Cosa le manca di più di quel tempo, professore?», chiediamo in conclusione.

«Non dico la nostalgia degli anni perché la nostalgia è la fanciullezza. A me importa solo questo: la solidarietà della strada, l’allegria della strada. La bottega, che era palestra di vita».

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