«Ciascuno di noi ha qualcosa da dare». Mushin, l’ultimo album di Flavio Zen made in Francavilla

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Sottosopra è il Podcast di Paesituoi.News: i fatti, i retroscena, il sopra e il sotto dalla città di Francavilla Fontana: questa è la seconda puntata del 27 gennaio 2023.

Tra i tanti talenti del territorio francavillese c’è anche il giovane rapper Flavio Zen. Da qualche anno emigrato a Bologna, si è laureato in comunicazione e da sempre ha prodotto musica nella sua città d’origine.

“Rappo da quando ero pupo
non mi stanco io
non gioco frà
io produco”.

(Shinobu, primo singolo dell’album Mushin)

Flavio Zen Mushin

Ma entriamo nel merito: cosa significa “Shinobu”?

«Shinobu in giapponese significa ‘nascondersi’. Gli shinobi sono i ninja, i maestri del muoversi in maniera silenziosa. I soldati dell’Impero, nel Medio Evo, venivano chiamati shinobi».

Anche il titolo dell’album è una parola giapponese: Mushin significa ‘illuminazione’. Viene da domandarsi a cosa sia dovuta la presenza di più parole di un’altra lingua, quella giapponese, in un solo album. Si rischia quasi di confondersi tra i diversi vocaboli nipponici e orientali: Mushin, Shinobu, Om mani padme hum, Kotodama, Kawaii. Come mai un ragazzo del sud Italia si fa promotore di un mondo sconosciuto?

Sotto la mia pelle sembra essere l’unico singolo legato all’italiano, legato a questa terra, a questo continente. In realtà in tutte le canzoni Flavio parla con la forza pregnante delle metafore in cui ciascuno può riconoscersi. Apprendimenti maturati negli anni e riproposti in poche strofe, brevi e concise.

Per esempio, quando canta in Shinobu: “vieni da me se hai bisogno di consigli su quello che non so, fuggi da me se hai bisogno di una mano su ciò che so far meglio”.

Confida Flavio: «Le persone sensibili hanno l’arroganza di pretendere attenzioni. È inevitabile, siamo umani. Bisogna saper gestire il saper fare qualcosa. Ho combattuto tanto per dire ‘non sono arrogante, sto offrendo un servizio qualsiasi’. Formarsi per avere credibilità serve agli altri, non a te, forse anche questo può essere un processo naturale. Per sbocciare artisticamente, abbiamo bisogno di una nicchia sociale. Posso essere un artista incredibile, ma se sto chiuso in garage, ‘moro paccio‘, come si usa dire a Francavilla».

Cercare attenzioni e, al contempo, offrire un servizio qualsiasi, appare come una contraddizione. Eppure, parlandoci, Flavio non fa una piega. È il segno che bisogna calarsi nel mandala della sua poetica. E lo si può fare solo attraverso l’ascolto della sua musica, scandita da tappe di rivelazioni ad illuminare passaggi bui, quelli delle contraddizioni appunto.

Non solo la sua musica parla per sé, ma anche un incontro fatale, a Bologna, che ha segnato un momento cruciale della sua vita e della sua carriera.

«Ho avuto la possibilità di lavorare con questo ragazzo che ha subìto una lesione cerebrale a seguito di un incidente. Ha avuto gravi problemi di memoria. È stato in coma per 3 settimane. Ha problemi motori, crisi di rabbia, ha problemi a mantenere uno stato di concentrazione. Alcune cose non potranno mai ritornare come prima, ma la parte motoria e mnemonica hanno avuto un notevole sviluppo. Anche lui era musicista prima dell’incidente, per questo i suoi psicologi hanno consigliato ai genitori di non far perdere del tutto i contatti con la musica».

Ma tra tanti perché scegliere proprio te?

«Grazie ad interviste su di me trovate in rete, si sono interessati alla persona, soprattutto al fatto che studiassi comunicazione. Un conto è riuscire a fare musica, un conto è riuscire a lavorare con persone che hanno difficoltà».


Ma la tenacia è sempre stata una sua caratteristica, anche prima di Bologna.

«Ho dovuto lottare per farmi pagare le esibizioni. Fare un concerto è investire il proprio tempo, il proprio talento. Molto spesso mi veniva detto che mi ero montato la testa perché volevo essere pagato. Dicevo ‘guarda, se vai dal panettiere e gli dai i soldi per la rosetta, mica gli dici che è montato di testa. Sta usando il suo talento per fare qualcosa che tu non sai fare’».

Quando un prodotto è finito, correlato di foto, immagini, parole, promosso da tour, è difficile ricostruirne il processo creativo. E pur chiedendolo apertamente all’autore stesso, è difficile persino per lui ripercorrere a ritroso il dedalo entro cui si è spinto. Come per i brani: «quando finisci di scrivere un brano, sei già fuori. Esco anch’io da quel momento».

Ciò accade per la vita. Nei 4 anni trascorsi per dare alla luce Mushin, Flavio ha lasciato Francavilla, si è trasferito a Bologna, ha studiato canto, si è laureato, lavora come musicoterapeuta.

Ecco che cominciamo a ricomporre i pezzi di un puzzle i cui tasselli ora hanno un nome, una voce, un volto. Rilasciano più d’una emozione perché incuriosiscono, perché la curiosità stimola continuo apprendimento.

Shinobu, nascondersi, perché quando si vive in un paesino piccolo, ci si nasconde inevitabilmente.

Mushin, l’illuminazione raggiunta con lo sforzo. Si usa nelle arti marziali. È uno stato di consapevolezza del proprio corpo e della propria mente.

Perché sei andato via, Flavio?

«Non me ne sarei mai voluto andare. Quando ero più ragazzino, pensavo che siccome uno fa arte, deve essere necessariamente riconosciuto e apprezzato. In realtà è una scelta mia. Nessuno è obbligato. Se tu nasci con un bagaglio di attrezzi e uno nasce solamente con un cacciavite, quello che nasce con più attrezzi non ha più meriti. Devi comunque utilizzare quello che hai per costruire qualcosa se vuoi ottenere rispetto».


Così Flavio comincia a prendere lezioni di canto. A 27 anni. Studiare canto faceva dire alla gente “questo qui non è uno che fa la musica in cameretta, ma studia anche”.

«Le cose che ho imparato, anche se alcune non mi interessano, servono. Tutto serve. Alla fine ho capito che la paura di farsi contaminare è necessaria. Finché l’arte rimane nella testa, nel mondo delle idee, è perfetta. Quando la porti qua, sul tavolo, vediamo quanto vale, in mezzo alle persone, con le critiche».


Andare via per scoprire che già ci si confrontava con il mondo reale. Andare via da una terra che ha dato quegli strumenti naturali per il confronto. Andare via per accorgersi che non solo le scelte future sono quelle determinanti, ma anche quelle prese in passato.

«Quando non avevo niente da mangiare non andavo a fare il cameriere. Non perché non mi piaccia, ma perché io voglio fare musica. Se un mese guadagno 100, mi arrangio con 100. Se il mese dopo guadagno 1000, ottimo. Questo voglio fare io».


Bisogna sempre ricordarsi da dove si viene. E chi si è. È inutile fare progetti: «tu non devi diventare niente. Tu sei già. Devi solo capire cosa sei già. E andare in quella direzione».

Qual è la direzione di Flavio Zen?

«Ho cominciato a disegnare prima di parlare. A 1 anno parlavo già. Intorno agli 8/9 anni mio fratello mi regalò “Music2000”, un gioco per la Playstation1 che, in realtà, era un software di produzione musicale. Poi al liceo artistico, a Brindisi, ho trovato una scena rap fervida. Già scrivevo pensieri, poesie, e ho iniziato a mischiare le due cose».

A chi ti rivolgi quando canti “state lontani da me”?

«In questo brano parlo del voler essere lasciato in pace dai ricordi negativi di persone a cui ho voluto bene. Alla fine è un percorso, non si può tornare indietro, dire ‘se avessi detto’, ‘se avessi fatto’. Questo è il percorso, non c’è altra strada».

Cosa significa “Om mani padme hum”?

«Si pronuncia così come si scrive. È sanscrito, è un mantra tibetano. Il più famoso di questi 4 è ‘om’».

E “Kotodama”?

«Kotodama è la divinità del linguaggio. Uno spirito, lo spirito della parola».

Perché c’è l’Oriente nella tua musica?

«Mio padre faceva karate. Alle scuole medie ho scelto ‘Zen’ come nome perché l’ho letto su un quaderno. Mi sono interessato a cos’era. Parecchi assunti di questa cultura mi appartenevano. Il nome ‘Zen’ mi ha introdotto nella musica e mi ha salvato da periodi di depressione».

Tra il Flavio di Francavilla e il Flavio di Bologna, cos’è cambiato?

«Ho perso delle amicizie perché io sapevo fare delle cose che loro volevano riuscire a fare. Non riuscivano, perché sapevano fare altre cose che non sapevano di saper fare. Quello che cerco di far capire a tutti è che ognuno di noi ha qualcosa da dare. Conosci te stesso. Non perdere tempo. Se fai ciò che ti piace, non ti interessa niente se ti sistemi o non ti sistemi. Una volta che sei felice, sei lucido. E quando sei lucido, arrivano più occasioni. Ciò che mi preme è che più persone possibili si accorgano di questo».

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