«Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che cambi in esempio.»
(Albert Camus – “Taccuini”)
Negli ultimi giorni Francavilla Fontana sembra un po’ Acitrullo, quel piccolo borgo di sole sedici anime nato dal genio di Maccio Capatonda, in cui si decide di sfruttare un tragico evento fortuito per un grottesco e macabro tornaconto di marketing territoriale. Ma stavolta in negativo.
Così, come una morte improvvisa, nel film Omicidio all’Italiana, porta il paesello agli onori delle cronache nazionali, allo stesso modo Francavilla, nella triste realtà degli ultimi giorni, ha raggiunto un’immeritata popolarità per via del violento episodio di una rissa tra ragazzi, sfociata nel pestaggio ai danni di un 17enne di Sava.
Un fatto triste e vigliacco che qui merita la più ferma condanna e la massima solidarietà nei confronti della vittima, a cui va tutto il nostro sostegno e l’augurio di una pronta guarigione.
Nel mondo virtuale e in quello reale si sono sprecati a centinaia i commenti, infarciti spesso di una retorica altrettanto violenta e forcaiola. Chi cerca il colpevole tra le istituzioni politiche, nella scuola, nelle famiglie, chi chiede maggiori e più severi controlli, invocando lo spirito della buonanima del Maresciallo Galeone.
Una colata di pareri e opinioni non richieste – come questa, d’altro canto – che si è subito trasformata in una glassa appiccicaticcia che ha reso impraticabile ogni discussione sui giovani e sulla sicurezza.
A riprova di ciò, l’attacco a muso duro (o il pestaggio? Quando è online è meno violento e meno vigliacco?) da parte di decine di persone adulte, sotto al comunicato di un movimento giovanile francavillese che condanna ovviamente il fatto, ma pone l’accento sull’assenza di spazi sociali aggregativi che non siano incardinati a logiche di consumo.
“A Francavilla c’è un bar ogni 380 abitanti” si dice in sintesi “e non ci sono spazi di socialità alternativi”. Tra i commenti più moderati: “Ai miei tempi non c’erano neanche i bar di oggi ma c’era più educazione. Scià fatiati fori ca fatìa ni štai. Iu vi purtava tutti all’acinini”.
Siamo, quindi, all’antica lotta generazionale tra “ai tempi miei…” e “voi non ci capite”, uno scontro Noi/Loro molto ricorrente in quest’epoca in cui tutti gli schemi socioculturali sono saltati e i riti di passaggio verso l’età adulta non esistono più, persi in un continuo fluire fatto di corse in avanti e brusche battute d’arresto, e tutti hanno bisogno di definire se stessi in contrasto con il mondo circostante.
Due mondi sempre più lontani che, quando interagiscono, lo fanno violentemente perché nessuno riconosce la legittimità dell’altro.
Il “mondo dei giovani” è sempre più letto e raccontato dai grandi attraverso la lente della superficialità, della vuota retorica e della reazione violenta nel non voler accettare che una parte di responsabilità rispetto a quel cambiamento che si condanna è proprio degli adulti che lo criticano.
Chi, probabilmente sulla scorta delle riflessioni istintive, invoca maggiori controlli attraverso la militarizzazione del territorio spinge a riflettere sulla percezione della sicurezza in città.
Fortunatamente episodi di tale portata sono piuttosto rari anche se non da sottovalutare. Sempre più spesso, tuttavia, nelle cronache si fa riferimento a episodi di “inciviltà”, atti di “maleducazione” e “vandalismo”. E per andare incontro a questa sete di maggiore sicurezza, l’Amministrazione Comunale installerà 24 telecamere di sorveglianza nel centro storico.
Lo stesso accadrà anche nel quartiere San Lorenzo dove addirittura saranno monitorati i varchi in entrata e in uscita. Ma sicurezza vuol dire sorveglianza? Sorvegliare risolve il problema della percezione di insicurezza dei cittadini o, al di là delle semplificazioni, sono altre e più integrate le politiche da attuare in merito?
Allo stesso tempo, a livello istituzionale, le risposte si fanno sempre più deboli. In città non si sente parlare di politiche giovanili da anni, la gestione privata e privatistica di alcuni spazi pubblici di aggregazione sociale ha portato a risultati miseri. D’altro canto, si sa, i giovani non votano. “I giovani non si interessano di politica”, dirà qualcuno. E la politica si disinteressa dei giovani.
In una società che quotidianamente appare sgretolarsi sotto i colpi delle varie sfumature del concetto di crisi (sanitaria, politica, economica ecc), mantenere alta l’asticella dei valori di vicinanza, comunità e solidarietà è impresa assai ardua e soprattutto lasciata alle scelte più o meno virtuose dei singoli.
Nelle famiglie non manca l’educazione e nelle scuole si lavora duramente per formare cittadini e cittadine che abbiano confidenza con il vivere civile. Spesso, tuttavia, si perde di vista il valore pedagogico dell’esempio, dell’atto che si compie (o non si compie). E in questo nessuno è esente da colpe e responsabilità.
Sullo sfondo di questa triste vicenda, ma determinante affinché episodi come questo accadano, c’è infatti una società disintegrata, litigiosa e, proprio per questo, estremamente vulnerabile. Una società che non ha sviluppato gli anticorpi per analizzare in maniera sana quanto accaduto, interrogandosi onestamente, senza lasciarsi alle spalle vuoti che diventano esistenziali.
E, com’è noto, i vuoti, volenti o nolenti, vengono riempiti in maniera autodeterminata. E spesso accade che il contenuto non ci piaccia.
Una soluzione? Spiace dirlo, ma probabilmente non c’è. L’unico modo per provare a uscirne è collettivamente, come comunità, tenendo a mente le parole di Italo Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. (Italo Calvino, Le città invisibili)